Paola Maiurino – Responsabile Comunicazione Fondazione di Comunità del Centro Storico di Napoli

Partiamo da un assunto. E da una serie di domande.

Molto probabilmente, quando parliamo di comunicazione sociale, siamo in errore.

Colpa nostra?

No, ma di due convinzioni.

La prima, legata alla sua definizione.

Nel corso del tempo, la definizione di “Comunicazione Sociale” è incredibilmente mutata, si è riconvertita, forse si è semplicemente adattata ai tempi. Per anni, infatti, si è “limitato” il potenziale di questa locuzione, attribuendole un ambito di intervento estremamente ridotto.

Comunicazione Sociale è sociale nella misura di essere diffusa; sociale inteso, semplicemente, come strumento della società.

Gli studi successivi hanno poi decisamente ampliato, e possiamo dire arricchito, il valore del termine, riconducendo alla comunicazione sociale la vocazione di promuovere diritti, giustizia, solidarietà. 

E arriviamo alla seconda convinzione, legata all’ambito di utilizzo.

La Comunicazione Sociale è la comunicazione del mondo non profit. 

Sbagliato.

Proprio per i valori sopra citati, ogni tipo di organizzazione, quindi anche enti pubblici o imprese private che si richiamano a valori di responsabilità e sostenibilità sociale, di fatto si fanno interpreti di questa comunicazione.

Semplicemente, potremmo dire che il mondo del terzo settore ne è la personificazione, la sua attuazione più prossima.

È necessaria una comunicazione diversa, una comunicazione specifica per il mondo del terzo settore? 

Assolutamente sì!

E giuro che ho esaurito questo estenuante sketch di domande e risposte.

Il Terzo settore è innanzitutto un settore emergente e in continua espansione, e i problemi di visibilità – e spesso ingiustamente di credibilità – che ne hanno sempre condizionato il prestigio, non sono più tollerabili.

Una realtà ben radicata nel nostro paese, che ha una valenza culturale ma anche economica.

Lo chiamano Terzo Settore, ma in realtà è il primo.

Per numeri, risorse, occupazione, il terzo settore è e resta trainante per l’economia del nostro paese, e per questo, merita un approccio dedicato che ne ottimizzi anche i mezzi; non dimentichiamo infatti che molto spesso le organizzazioni del terzo settore devono fare i conti con una dimensione finanziaria più modesta del mondo profit e sono spesso sottocapitalizzate. 

Quali sono quindi le dimensioni della comunicazione del Non profit?

I media classici, i nuovi media, e la valutazione d’impatto.

I primi vanno affrontati in un solo modo, con un ufficio comunicazione che regoli i rapporti istituzionali, soprattutto con i giornali, per creare un’identità della propria organizzazione, e soprattutto, per fare in modo che questa identità venga mantenuta nel tempo, si consolidi, avvii un processo di fidelizzazione con i propri stakeholder.

Non dimentichiamo che anche questo processo, come la comunicazione in generale, decenni fa veniva considerato per le non profit una sorta di perdita di tempo, quasi una violazione di integrità.

Un processo che fortunatamente è cambiato.

Resta però necessario, visto il contesto, che il responsabile della comunicazione di un ente non profit abbia non solo nozioni base legate al mondo del terzo settore, ma che ne conosca le norme, le distinzioni, gli ordinamenti.

Ho smesso di contare le volte in cui mi è stato chiesta la differenza tra associazione e fondazione, per citarne una.

Ma soprattutto, è necessaria una sensibilità – emotiva, certo – ma soprattutto pratica, che permetta di non commettere “scivoloni”, perdonabili in altri settori, assolutamente inconcepibili in un mondo legato alla solidarietà.

Meglio parlare di gay o di omosessuali? Possiamo discutere di femminicidio o l’omicidio non ha sesso? Carcerati o detenuti? E poi, il più diffuso, handicappati o disabili?

Così come la prima, anche l’approccio ai nuovi media è determinante, poiché raccontare bene la propria organizzazione vuol dire costruire fiducia, arrivare a un grande pubblico, appassionare alla nostra causa, ricevere – perché no – una donazione.

Con un’aggravante però. I vecchi media hanno ridotto lo spazio fisico, hanno accorciato le distanze; i nuovi media hanno ampliato all’infinito i luoghi della fruizione. Questo vuol dire che attraverso di essi, si possono avere grandi benefici, o creare immensi disastri.

Quindi, attenzione.

Ricordiamo sempre che ogni target ha un suo linguaggio; molteplici e diversificati sono i beneficiari e molteplice e diversificato deve essere il messaggio. Se gestito correttamente, un social media può avere una funzione di coinvolgimento e una partecipazione imparagonabile ad altri strumenti, ma questa partecipazione si ottiene solo con reputazione e chiarezza della proposta.

E arriviamo all’ultimo punto: il nostro operato deve essere sempre misurabile.

Il nostro apporto, il nostro impegno, soprattutto le nostre risorse, devono poter essere quantizzati, come devono poter essere quantizzati i benefici prodotti, se no ci dedichiamo all’accensione virtuale di candele su Whatsapp e va bene uguale.

Produrre un cambiamento è uno degli obiettivi principali – e di certo a lungo termine, non vendiamo fumo – di ogni organizzazione.

Un impatto che deve essere chiaro sin da subito, e la cui strategia di diffusione sin da subito dobbiamo stabilire.

Il nostro progetto comunicativo ha lo scopo di aumentare la consapevolezza del problema? L’obiettivo è un cambiamento permanente? O i cambiamenti individuali sono il primo passo? Vogliamo innescare un processo autonomo fatto di piccoli gesti quotidiani?

Per questo è necessario, prima di tutto:

Alla fine di questo percorso, racconteremo i nostri risultati.

Anzi, saranno i beneficiari – attraverso lo storytelling – a diffondere per noi quanto di buono abbiamo realizzato.

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