Enrico Caniglia ha insegnato per oltre un decennio Comunicazione politica nell’Università di Perugia. Attualmente è docente di Sociologia del linguaggio e di Sociologia della cultura nella stessa Università ed il team di PolitiDO ha chiesto il suo prezioso contributo su temi focali di seguito la bella intervista.

1. Dalle piazze virtuali a quelle reali, come pensa che sia cambiato il mondo della comunicazione politica dall’avvento dei social media? 

Per comprendere il cambiamento apportato dai social media occorre prima chiarire che la comunicazione politica, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non ha come suo fine specifico la persuasione o la manipolazione delle menti o delle opinioni altrui, quanto invece il portare a conoscenza un’offerta politica (sia essa un candidato, un messaggio, una proposta) al maggior numero di persone possibili all’interno di un target – sia esso costituto dall’intera comunità dei cittadini o da gruppi più circoscritti e specifici (i giovani, le donne, i residenti di una regione etc.) – e di farlo in modo efficace ed efficiente, vale a dire a costi sostenibili e in modo chiaro e comprensibile. Da questo punto di vista i social media si sono rivelati un potente strumento: abbattono i costi della comunicazione, riescono a mirare audience specifiche e a raggiungere target normalmente disinteressati alla politica – come i giovani e in generale le giovani generazioni che si sono formate nell’epoca del disimpegno. E la loro crucialità crescerà nel tempo via via che le giovani generazioni rimpiazzeranno quelle precedenti ancora legate al mondo dei media tradizionali. Quanto invece alla persuasione, occorre precisare che la formazione dell’opinione politica individuale è il risultato di una complessa alchimia destinata a rimanere sconosciuta. Certo, come già nelle forme di comunicazione politica televisiva, anche nella comunicazione via social i candidati e loro consulenti provano a convincere, presentando in forme accattivanti la propria offerta politica o adattandola il più possibile alle caratteristiche del gruppo target, magari servendosi disinvoltamente di algoritmi e di altre forme di elaborazione dati. Tuttavia, ciò non vuol dire che si “manipoli” l’elettore. La comunicazione politica non va confusa con la “propaganda”. Realisticamente, la comunicazione politica prova a essere convincente ma non per questo, automaticamente e deterministicamente, convince. Decidere “di andare a votare”, perché ormai anche questo è un aspetto su cui si deve lavorare, e decidere “per chi votare” restano il risultato di processi complessi e insondabili. Ne vale l’essenza stessa della democrazia: l’ideale democratico impone che gli esiti elettorali non siano mai predeterminati in anticipo. Si possono fare previsioni sull’esito elettorale, ma non lo si può determinare. Paradossalmente, una strategia elettorale talmente efficace che riesca a determinare i risultati delle elezioni prima ancora che si voti, sarebbe antidemocratica. Ma tale strategia non esiste. Nonostante esistano bravi consulenti politici, l’esito elettorale rimane ancora oggi incerto fino allo spoglio delle urne. Dico questo perché bisogna smettere con quelle rappresentazioni del consulente politico, comune a tanta fiction televisiva e cinematografica, che lo dipingono come un cinico e spregiudicato manipolatore in grado di determinare la vittoria di un candidato. Il consulente politico è un professionista che, più modestamente, lavora per collegare la politica alle persone. E’ vero che lo fa dietro compenso, ma lo stesso accadeva per i tradizionali dirigenti di partito, che erano infatti stipendiati da quest’ultimo. E non è detto che il consulente politico non possa lavorare anche per una giusta causa, perché non bisogna mai dimenticare che perfino la verità “non parla mai da sola”, ma ha bisogno di essere ben comunicata per poter essere apprezzata come tale.

2. Per lei, l’offline quanto è ancora utile in una campagna elettorale ed in che modo potrebbe aver senso strutturare una comunicazione che usi i media classici?

I nuovi media digitali non hanno sostituito in toto i media tradizionali e non è neanche ipotizzabile che annullino l’interazione sociale nelle sue forme face-to-face. Ragion per cui, la formazione delle opinioni continua e continuerà a basarsi anche su informazioni e consapevolezze che i cittadini ricavano da altri media come anche dal piacere di una discussione con gli amici (quelli che le tradizionali teorie comunicative chiamavano gli “opinion leader”). Non siamo mai, e per fortuna, lasciati soli con i nostri telefonini, ma continuiamo ancora a interagire, a discutere a confrontarci, sia via media sia in modo interpersonale. Insomma, la sfera pubblica non si è spostata completamente on line, come in una sorta di metaverso politico, anzi al momento questo scenario è solo fantascienza – del resto l’espressione metaverso è stata coniata da uno scrittore di fantascienza, Neal Stephenson. Ragion per cui, per un media manager o per un consulente politico, si tratta sempre di coordinarsi con quanto succede in altri ambiti: i media tradizionali, gli umori sociali prevalenti etc. Questo può significare che a volte e in certe occasioni occorra “fare simbiosi” con i media classici, come la Tv, perché in quelle circostanze sono quest’ultimi a farla da padroni. In altre parole, quando i media classici, in primis la Tv, creano candidati-personaggi per ampie fette della popolazione, non si può prescindere da quel fatto. In quelle circostanze, è difficile che una campagna incentrata solo sui social possa contrastare quanto succede nei media classici. Fino a qualche anno fa, era necessario che un candidato o un partito sfondassero preventivamente in Tv, e solo dopo e in forza di tale popolarità potevano usare i social media, magari solo per penetrare in target più ristretti e meno interessati alla politica. La popolarità, la risorsa fondamentale nel processo di acquisizione del consenso, passava sempre per l’accesso ai media classici, gli unici “fornitori” dell’audience necessaria. La vicenda di Beppe Grillo e dei CinqueStelle, lo dimostra chiaramente. Nonostante Grillo e i Cinque Stelle siano stati fin da subito associati ai social, era subito apparso chiaro come un ruolo preponderante nel loro successo elettorale era stato svolto dalla Tv – Grillo, del resto, era stato un comico di grande successo nel piccolo schermo. Ma si tratta di un esempio ormai vecchio. Adesso esistono e si moltiplicano esempi di politici-influencer che riescono a costruire la propria popolarità tramite i social. Ma come succede per tutti gli outsider, la fetta di consensi che si riesce a ottenere in questo modo non è ancora sufficiente a una vera e propria scalata elettorale, per cui occorre prima o poi “passare dal sistema”, vale a dire apparire in Tv, essere notiziati nei giornali e ottenere visibilità nel territorio. A questo proposito, mi piace anche ricordare una campagna elettorale per la carica di sindaco di una grande città del nord, progettata da un mio caro e bravo collega. Tale campagna consisteva nel bypassare tutti i media, social compresi, e portare il candidato direttamente nelle case degli elettori, ma non come “spin” per far notizia e quindi garantirsi una qualche risonanza televisiva o giornalistica. Al contrario, la campagna consisteva veramente nel far incontrare il candidato con gli elettori nelle loro stesse case. Il punto è che ci si era resi conto che l’umanità del politico in questione non riusciva a trapelare nei media, dove infatti appariva freddo e “burocratico”; al contrario la sua persona dava il meglio di sé nel contatto diretto con la gente. Si tratta di un esempio estremo, se si vuole, ma serve a ricordare come le strategie offline abbiano ancora il loro senso, e che quindi una buona campagna debba essere articolata in multiformi strategie e prospettive, adattandola al candidato e alla situazione politica.

3. Ormai da un decennio, a partire dal primo Obama, noi addetti ai lavori parliamo di Campagna basata sul Bottom Up (contro il “vecchio” top down) grazie all’uso del digitale, nello specifico dei social media. Ecco, lei pensa che davvero tali mezzi possano far sì che proposte dal basso vengano recepite dall’alto – quindi dal candidato, dal governante – e siano in grado di influenzare eventualmente l’agenda politica?

L’apparizione del social media ha fatto intravedere la realizzazione di quello che gli studiosi di comunicazione degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso auspicavano come l’autentico sviluppo della democrazia contemporanea. Pensatori come Raymond Williams, Lawrence Grossman e tanti altri immaginavano, ben prima dell’apparizione dei social e di internet, che la nascita di dispositivi mediatici interattivi o gestiti autonomamente dai cittadini avrebbe creato una “democrazia dal basso”. Questi studiosi erano particolarmente critici verso la democrazia liberale e le loro élite partitiche che usavano i media, in particolare giornali e Tv, in modo “paternalistico”. Si badi bene che quelle élite politiche non intendevano manipolare, anzi erano nella più assoluta buona fede. Il fatto era che il pubblico dei cittadini era tacitamente ritenuto immaturo, per cui spesso e per il suo stesso bene certe informazioni non gli dovevano essere fornite e certe temi non erano mai da discutere pubblicamente. Insomma, la classe politica si comportava con i propri cittadini allo stesso modo di come un buon padre fa con i figli piccoli: proprio come i bambini, i cittadini erano considerati dominati da inesperienza, scarsa maturità e bassa consapevolezza, per cui era meglio, per il loro stesso bene, che non sapessero e non discutessero di questioni delicate, ma che di queste cose si occupasse in via esclusiva l’élite politica, insomma coloro che sanno e ne capiscono. A questo scopo, la Tv, con il suo essere uno strumento di comunicazione unilaterale e a senso unico, costituiva il medium perfetto. Un buon esempio di tale paternalismo è stato, e per certi versi lo è ancora – basti pensare alla recente gestione comunicativa della vicenda legata all’epidemia di Covid19 –, la politica filtrata dalla Rai italiana o dalla BBC inglese. Contro questo sistema, l’emergere di strumenti mediatici che permettessero l’espressione dal basso, vale a dire dei comuni cittadini e in modo personale e autonomo, era visto come un passo verso una “democratizzazione della democrazia”. Oggi questa utopia sembra sul punto di concretizzarsi: il senso ultimo di internet e dei social media sta proprio nel consentire una comunicazione personale, autonoma e che parte dal basso. Tuttavia, quanta più democrazia abbiamo ottenuto? Il processo è ancora in divenire e non si può certo fornire un bilancio definitivo, anche perché, come ho ricordato prima, i nuovi media convivono ancora con i media tradizionali, determinando una sorta di complessificazione della comunicazione politica e dei suoi target. Certamente, i social media possono essere efficaci modalità di comunicazione di temi e di proposte dal basso, perché consentono di bypassare la tirannia del gatekeeping dei giornalisti e degli altri operatori mediatici, e quindi arrivare direttamente a farsi ascoltare da politici e governanti. Il punto è che, al momento, le ricerche condotte ci dicono che i temi che emergono nei social sono del genere “usa e getta”. E anche quando si tratta di temi importanti, la presa sull’agenda politica è perfino più incostante di quella garantita da Tv e mondo dell’informazione.

A questo punto mi preme però sottolineare un altro aspetto: oggi l’affermarsi dei social media e quindi della partecipazione dal basso sta coincidendo con un intensificarsi della conflittualità politica cui non si assisteva da tempo. E’ vero che i social media sono uno strumento con cui i cittadini possono far sentire la propria voce, e quindi limitarsi “buonisticamente” a integrare l’agenda politica delle élite. Tuttavia, i social si offrono anche come strumenti con cui i cittadini possono attaccare e opporsi attivamente a ciò che l’élite politica fa e comunica. Questo aspetto non è stato visibile immediatamente, e quando finalmente lo è stato, non è stato ben metabolizzato. Non è un caso, infatti, che agli occhi di molti politici, come anche di noti osservatori e commentatori, i social media sono passati dall’essere considerati un modo per ampliare la democrazia all’essere additati come la sua principale minaccia. Ai social media è imputata, ad esempio, la responsabilità dell’emergere e della diffusione di quell’epidemia di fake news e di teorie complottiste che minaccerebbe lo stesso svolgimento democratico delle campagne elettorali. Sono accusati di essere il “brodo di coltura” di idee di estrema destra, xenofobe e razziste, e di dare espressione alle opinioni autoritarie e alle tendenze violente presenti nell’opinione pubblica. Le vicende delle campagne presidenziali americane del 2016 e l’episodio dell’assalto a Capitol Hill sono continuamente menzionati come monito. Per questa ragione, da un po’ di tempo è tutto un rincorrersi non solo di iniziative di debunking e di fact-checking, ma anche di procedure informatiche che operano una censura automatica di fake news e teorie complottiste su internet e sui social, e non sono mancate proposte di legge per censurare internet e i social durante le campagne. Il rischio è che, via via che queste misure censorie andranno a istituzionalizzarsi, resterà ben poco dello spontaneo “Bottom up”. A questo prevalente andazzo censorio, un osservatore un po’ più attento ha provato a rispondere definendo le fake news e le teorie complottiste come il “gas di scarico della democrazia”, in altre parole un sottoprodotto fastidioso ma pur sempre inevitabile della democrazia dal basso, lo scotto da pagare per godere di quella diffusa libertà di espressione e di circolazione delle idee offerta dai media digitali. Personalmente ritengo che, anche nel caso di macroscopici effetti negativi come la diffusione di fake news e di teorie complottiste, occorre per prima cosa capire invece di condannare e censurare. Le teorie complottiste, ad esempio, troppo sbrigativamente vengono liquidate come l’“irrazionale” che tramite i social media starebbe irrompendo dal basso per inquinare la sfera pubblica contemporanea. Si tratta invece di forme di contestazione e di critica, magari mal espresse, che sono riuscite a trovare uno sbocco solo grazie ai social media, e che rivelano soprattutto che un qualche deficit comunicativo è rimasto ancora irrisolto nelle democrazie contemporanee. Non a caso, emergono su certi problemi e non su altri, in certi momenti e non in altri, quasi a dimostrare che su certi temi e in certe occasioni le autorità epistemiche contemporanee, vale a dire i politici, i giornalisti e gli scienziati, non sono state del tutto chiare e trasparenti, insomma comunicativamente efficaci. Per i politici e per i cittadini, come anche per i consulenti politici, si tratta quindi ancora una volta di una sfida comunicativa, un’occasione per comprendere e far comprendere quanto sia politicamente cruciale il processo di informare e di far capire, insomma di comunicare e di farlo bene.