Di seguito l’intervista a Gualfardo Montanari, giornalista professionista, responsabile dell’Informazione Multimediale del Presidente della Regione Campania.

Rispetto al tema dei fenomeni della comunicazione di massa e della grande influenza che i nuovi media hanno sulla società, quanto pensa che questi siano stati parte del successo del Movimento 5 Stelle, di Salvini e di Giorgia Meloni? 

Hanno avuto una parte rilevantissima. Faccio una considerazione di ordine generale. Per renderci conto della loro importanza, è fondamentale osservare il dibattito che si è scatenato in queste ore intorno alla decisione, ad opera di Facebook, Twitter e di altre grandi piattaforme di condivisione digitale, di oscurare gli account e le pagine di Trump dopo i fatti del 6 gennaio a Capitol Hill: comunque lo si valuti, è un fatto senza precedenti (sebbene i segnali c’erano stati tutti nei mesi scorsi) che ha segnato uno spartiacque rispetto alla storia recente della comunicazione istituzionale e politica (e non solo) e che ha posto le élite, finora distanti dall’argomento, di fronte al problema di come si regolamenta la comunicazione attraverso i social media. Venendo a noi, la politica italiana dell’ultimo decennio è stata pienamente dentro il “tumulto” globale generato dalla comunicazione attraverso i nuovi media. In Italia dividerei i due fenomeni politici citati, in maniera speculare: i 5 Stelle (e Grillo) da un lato e Salvini-Meloni dall’altro. I primi sono un’esperienza nata e cresciuta attraverso il blog di Beppe Grillo e la piattaforma Rousseau. Poi hanno avuto un nuovo slancio grazie ai social media fino ai successi elettorali. Salvini e Meloni, invece, hanno avuto la capacità di trasformarsi, da figure politiche di vecchio stampo a protagonisti della comunicazione social. Questa abilità nel cambiare pelle, li ha rimessi al centro del dibattito politico. Pensiamo alla Lega Nord: nel 2013, quando Salvini ne diventa segretario, era travolta dagli scandali, sotto il 4%, a un passo dallo scioglimento, sette anni dopo, alle elezioni europee ha raccolto oltre il 30% dei voti. Ovviamente non è assolutamente tutto oro quello che luccica: finora le esperienze politiche citate, dopo aver trovato slancio attraverso i social, non sono riuscite a replicare lo stesso successo e la stessa efficacia nella comunicazione quando si sono cimentate con la sfida del governo.

Secondo lei, i social media hanno cambiato il modo di intendere la comunicazione politica? Se sì, in che misura?

Ci sono, come sempre, fattori positivi e altri negativi. I social media hanno introdotto elementi di novità e di dinamismo in una comunicazione politica fino a un decennio fa stanca e ancora legata nella forma e nei contenuti a schemi e a linguaggi post Guerra Fredda. Hanno “scrostato” il linguaggio, l’hanno reso più diretto, hanno creato un nuovo protagonismo delle persone, anche attraverso l’affermazione di forme di militanza digitale. È cresciuta la partecipazione. Dopo decenni di disaffezione e di costante calo, la partecipazione al voto recentemente è infatti tornata a salire. E certamente la nuova comunicazione ha influito. Poi c’è il rovescio negativo della medaglia. I social media hanno estremizzato e aumentato problemi e distorsioni che già esistevano: l’amplificarsi delle fake news, i linguaggi più estremi, il razzismo, la violenza, il prediligere argomenti e soluzioni semplici, al limite della banalità, rispetto alla complessità. Intervenire sugli aspetti che determinano queste degenerazioni è la sfida con cui le élite e il sistema dell’informazione dovranno cimentarsi nei prossimi anni.

Quanto, in chiave mediatica, la multicanalità ed il rapporto online/offline pensa possa incidere sul successo di una campagna elettorale?

Incide tantissimo, ovviamente. Anche se i fattori che determinano l’esito di una competizione elettorale sono tali e tanti che non è possibile quantificarne il peso. Devo dire, tuttavia, che personalmente trovo più interessante ed appassionante quanto una buona comunicazione, in tutte le sue modalità, possa supportare, sostenere e determinare in meglio il lavoro quotidiano delle istituzioni: è nel governo della quotidianità, nel trovare le soluzioni concrete ai problemi, dove questo molto spesso significa mediazione e capacità di sintesi, che la comunicazione istituzionale nell’era dei social ancora non ha raggiunto il punto di equilibrio tra stile, contenuti ed efficacia. Tutto questo spesso genera ed alimenta cortocircuiti. Qui c’è ancora tanto da lavorare.

In un periodo drammatico e drammaticamente saturo di informazioni, spesso eterogenee, sulla grave crisi sanitaria che stiamo vivendo, pensa che le piattaforme debbano avere un ruolo attivo nel combattere notizie non verificate?

Se guardiamo alla giungla degli albori, va detto che negli ultimi anni, soprattutto dal 2018 ad oggi, le piattaforme social hanno fatto molti passi in avanti per contrastare la deriva delle fake news, che tuttavia – è sempre bene sottolineare – non sono un prodotto dei social network o della Rete più in generale, ma un sottoprodotto del sistema dell’informazione. Da sempre. Il coronavirus, anche su questo aspetto, ha contribuito a tirare fuori il meglio e il peggio che già esisteva intorno a questi problemi. È chiaro che avremo la svolta se si prenderà pienamente coscienza che l’unico modo per tutelare gli utenti-cittadini-elettori è una strategia globale, che includa e coinvolga gli Stati e le organizzazioni sovranazionali nel governo dei processi. L’algoritmo non è intoccabile, né è perfetto. Può cambiare e funzionare meglio.