Rispetto al tema dei fenomeni della comunicazione di massa e della grande influenza che i nuovi media hanno sulla società, quanto pensa che questi siano stati parte del successo del Movimento 5 Stelle, di Salvini e di Giorgia Meloni? 

Non é un mistero che Facebook abbia favorito anche la prima elezione di Donald Trump a presidente USA. Oggi viviamo quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han chiama espressamente la dittatura della Rete. Non è mai esistito prima d’oggi, nemmeno nei regimi più autoritari della Storia, un controllo così capillare delle masse e dei singoli. Grazie all’apperecchietto che ciascuno di noi ormai non abbandona nemmeno di notte e che solo per consuetudine continuiamo a nominare telefonino o più brillantemente smartphone, ma che sarebbe più corretto identificare come mini-terminale, veniamo tele-guidati mediante meccanismi più o meno subliminali nelle nostre scelte commerciali, sociali e politiche. È ovvio che chi più e meglio sappia usare questi strumenti social dal lato degli influencer, ottenga migliori risultati in termini di condizionamento dell’opinione pubblica. Ormai viviamo in un’epoca dove governa un mostro che partecipa delle caratteristiche del “Big Brother” di Orwell e della “Cattiva Maestra Televisione” di Popper, unificate in un solo congegno. In sostanza, siamo ben oltre il video-controllo, siamo -come accennavo- al telecomando umano. Ognuno, più o meno inconsapevolmente, riceve ordini sul suo mini-terminale e compie azioni con la convinzione di obbedire a una sua personale determinazione, che altro non è che etero-determinazione e, dunque, esecuzione di un ordine programmato da altri. Questo vale per la moda, come per gli acquisti al mercato, per il gusto gastronomico come per la politica.  L’organizzazione della Bestia dietro Salvini e il pool di esperti di Grillo dietro il M5S hanno una padronanza del mezzo che nessun altro partito, a cominciare dal Pd, possiede. Non mi stupisco dei risultati nascenti dall’utilizzo di questo potere privo di qualsiasi regolamentazione. E devo dire che la Sinistra è decenni indietro sul tema delle regole (anche fiscali, penso alla Web-Tax) della Rete, ferma come è all’elaborazione della legge sul conflitto di interessi di Berlusconi. 

Secondo lei, i social media hanno cambiato il modo di intendere la comunicazione politica? Se sì, in che misura?

I social hanno introdotto una malattia della comunicazione politica molto grave, che poi ha infettato la stessa politica tout-court: la disintermediazione. Il rapporto diretto fra il “capo” e la “folla” è la morte dei corpi intermedi che sono, invece, il nutrimento della democrazia. La diretta Facebook è il balcone di Piazza Venezia del XXI secolo. L’idea che non vi sia più necessità di un “medium” fra le Istituzioni e il Popolo, fra il Palazzo e la Piazza, alimenta l’illusione della democrazia diretta come alternativa preferibile alla democrazia rappresentativa. È l’inganno della piattaforma Rousseau, che peraltro ha dimostrato di essere solo un canale di ratifica delle decisioni prese dall’alto, senza attivare mai un virtuoso processo di partecipazione e deliberazione dal basso. Ciò perché determinate decisioni sono per la loro natura genetica non compromettibili alle derive plebiscitarie. Lo sapevano bene i Costituenti che non a caso esclusero dalla soggezione al referendum abrogativo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto e ratifica dei trattati internazionali. Esiste un livello di specializzazione delle competenze ed inoltre un principio di cautela istituzionale che non può sottoporre alla valutazione non meditata, per non dire “di pancia”, delle masse quelle materie di tale delicatezza, da dover essere trattate con assoluta ponderazione. È fin troppo palese che in una concezione patologica come quella dell’”uno vale uno”, un click sulla tastiera vale come il vaglio di una commissione ministeriale o parlamentare basata su iter istituzionali ben procedimentalizzati e documentati. 

Quanto, in chiave mediatica, la multicanalità ed il rapporto online/offline pensa possa incidere sul successo di una campagna elettorale?

Ormai la presenza on-line e la multicanalità fanno la parte del leone. Nella sovrapposizione fra mondo reale e mondo virtuale è chiaro che il bombing su quest’ultimo da parte di un candidato crea le condizioni di maggior successo. Allo stesso modo, però, questo successo è volubilissimo. Basta uno stormire di fronde, per capovolgere letteralmente  un trionfo. Sotto questo profilo il case study più interessante è quello di Matteo Renzi, che evoca il vecchio proverbio “chi troppo in alto sal cade sovente precipitevolissimevolmente”. Dal 40% al 3% sono bastati meno di cinque anni. Ma anche la parabola dei Pentastellati mette in guardia rispetto alle fluttuazioni dell’elettorato contemporaneo: oggi registrano consensi ridotti a meno di un terzo dell’esito vittorioso delle elezioni politiche 2018. Lo stesso Salvini ha mancato il salto alle Regionali che avrebbe dovuto capitalizzare le campagne del Capitano. Tutti e tre questi soggetti Renzi, Salvini e Grillo hanno fatto e fanno uso dei Social in modo sistematico. Ma evidentemente il meccanismo ha in sè un dinamismo che non si concilia con la tesaurizzazione del successo. È come se la velocità della comunicazione pretendesse una velocità del ricambio. In politica, l’elettorato non si è mai distinto per aver avuto memoria. Gli italiani hanno facilmente dimenticato malefatte e meriti dei politici. La Rete catalizza questo comportamento e ridiscute in poche settimane intere esperienze durate molto più tempo. Per un verso, rivedo ancora una tendenza a far combaciare i giudizi commerciali (ormai assuefatti alla logica di breve periodo del “soddisfatti o rimborsati”) con i giudizi politici (che per loro natura dovrebbero richiedere un approfondimento complesso). 

In un periodo drammatico e drammaticamente saturo di informazioni, spesso eterogenee, sulla grave crisi sanitaria che stiamo vivendo, pensa che le piattaforme debbano avere un ruolo attivo nel combattere notizie non verificate?

Non so se siamo nell’era della post-verità o, più prosaicamente, nel regno delle fake news. Certo finiscono per essere credute come autentiche notizie e addirittura nozioni destituite di ogni fondamento. Questo pone un grande problema di verifica delle fonti e della loro autorevolezza. Se una notizia proviene da un giornale di stimata tradizione o da un anonimo sito internet, bisognerebbe imparare a fare la differenza. Ma non basta, dovremmo cominciare a ragionare sulla affidabilità ovvero sull’accountability di chi immette dati nel web. Oggi esiste un profluvio alluvionale di informazioni irrorate nella Rete da una quantità sterminata di soggetti nella maggioranza dei casi privi di referenze. Il fatto stesso che siano “pubblicati” finisce per conferire loro una patente (spesso falsa) di attendibilità. Paradossalmente una buona impaginazione, una confezione professionale del documento e la sua esposizione editoriale finiscono per far sembrare vera anche la più improbabile notizia o la tesi più fallace sotto il profilo scientifico. Bisogna combattere la superficialità della ricezione di queste fonti. E bisognerebbe iniziare a monte, rendendo certo e controllabile almeno il soggetto padrone del profilo da cui si diramano le informazioni destinate alla rete. Si dovrebbe sottoporre a certificazione di identità innanzitutto l’account, in modo tale da non cadere vittime dell’anonimato del quale si giovano anche forze criminali o addirittura pedofili. È ora di affrontare con coraggio il problema  dell’identità digitale. In questo contesto, il tema dei fakes diventa un corollario.